Anche se una sola volta aveva direttamente partecipato alla realizzazione di un film, Bronte di Florestano Vancini e si trattava solo di un intervento su un soggetto che gli stava a cuore, ma che il regista aveva già elaborato da anni Leonardo Sciascia ha certamente visto molto cinema, molto ne ha scritto e molto ne ha fatto fare.
Magari con distacco, rifiutando sempre di partecipare alla sceneggiatura dei film ricavati da suoi romanzi. Ma basta ricordare i titoli di questi film, A ciascuno il suo, Il giorno della civetta, Cadaveri eccellenti, Todo modo, per dargli un posto non marginale nella storia del cinema italiano degli ultimi vent’ anni, nel bene e nel meno bene, naturalmente.
Perché se il lavoro di Sciascia è servito a dare idee, aperture, dignità letteraria a un cinema italiano sempre esposto alle lusinghe della superficialità, i suoi romanzi sono anche serviti a volte come comodi sostegni, o coperture, a operazioni sbrigative, che si accontentavano di uno scavo letterario già fatto, convinti di trovarvi sul fondo anche tesori cinematografici.
L’ incontro fra l’ opera di Sciascia e il cinema o per lo meno quel tipo di incontro da cui nascono poi dei film è infatti avvenuto sostanzialmente in un solo periodo e con un solo tipo di cinema. I suoi registi sono stati Rosi, Petri, Damiani, cioè gli autori per antonomasia di quello che fu detto il film politico all’ italiana, fatto di molta generosità ma anche di molti equivoci e molti compromessi.
Anche se bisogna pur distinguere fra la solidità non priva di colori e fantasie barocche di un Cadaveri eccellenti, che nel 1975 riaccende il dibattito politico già aperto da Il contesto, e ad esempio il fallito espressionismo di Todo modo, il film di Elio Petri presto dimenticato e che l’ affare Moro rende ormai quasi improiettabile.
Ed è stato un incontro, quello fra Sciascia e il cinema, limitato poi a una sola parte della sua opera, essenzialmente i grandi romanzi (per completare la filmografia bisogna però ricordare anche Una vita venduta di Aldo Florio, 1975, storia di un caruso arruolatosi per disperazione coi volontari fascisti in Spagna, che deriva dal racconto L’ antimonio di Gli zii di Sicilia).
Ma nessuno spunto è mai stato tratto dagli altri libri, dalle microstorie o cronachette o inchieste a metà fra il saggio e il racconto, che avrebbero potuto ispirare un altro cinema, non necessariamente romanzesco e di lungometraggio, non necessariamente narrativo, non necessariamente destinato alle sale cinematografiche.
Il film su Moro di Giuseppe Ferrara non è tratto da L’ affaire Moro di Sciascia, ma da un meno impegnativo libro di Robert Katz, così come non nascono dalle sue inchieste storiche i film di Festa Campanile su Bruneri e Canella o quello recente di Amelio su Majorana e via Panisperna. Anche se non bisogna trascurare il trascinamento indiretto che l’ opera di Sciascia ha certo avuto su certi temi e su certi interessi.
Se il friulano Damiano Damiani darà il via alla serie della Piovra, sarà anche perché era stato lui a girare, tanti anni prima, Il giorno della civetta. Ma per uno scrittore il rapporto col cinema non sta solo nell’ essere fonte per opere altrui; e in questa circostanza è forse più interessante ricordare ciò che Sciascia ha scritto non per il cinema degli altri, ma sul cinema suo.
Un lungo saggio del 1963 su La Sicilia e il cinema in cui tutti i film d’ ambientazione isolana vengono presi in esame, da La terra trema a Stromboli, da L’ avventura a Il gattopardo, con giudizi quasi sempre severi o non entusiasti (e dunque se lui rifiutava la Sicilia di Antonioni, Rossellini e Visconti, sarà lecito avere dei dubbi su quella di Petri e Damiani).
Ma con bellissime pagine però su Salvatore Giuliano, sia nell’ analisi del film in sé, sia nella descrizione del pubblico contadino che in Sicilia lo vedeva: un pubblico che nella scelta stilistica dell’ invisibilità del bandito trova non un segno della sua secondarietà rispetto alle forze di cui è lo strumento secondo la lettura critica e colta ma un’ ulteriore conferma del suo mito.
Ancor più affascinante è poi un suo più recente testo sul cinema, o meglio su un attore e su un film.
Un vecchio film muto che lo scrittore ricordava di aver visto a Racalmuto verso il 1933 e che rivede dopo quarantacinque anni in Francia in una cineteca: Il fu Mattia Pascal di Marcel L’ Herbier. Su questo ritrovamento e questo ricordo così nitido da fargli riconoscere scene mancanti o mutate nella copia attuale Sciascia scrive uno dei suoi più bei libretti,
Il volto sulla maschera (ora in Cruciverba) che è un delizioso gioco di cinema sul cinema fatto attraverso la letteratura, e un esercizio di pirandellismo su un film pirandelliano. Perché nelle sue memorie l’ attore Mozzuchin non cita mai quel film? Forse perché non accettava di riconoscersi nell’ identità di colui che perde l’ identità, lui che aveva già un’ identità incerta in quanto attore, ed esule costretto a rifarsi un’ immagine, e vittima di un esperimento (quello famoso detto di Kulesov) che già lo aveva ridotto a un puro segno vuoto di senso.
Forse per questo Mozzuchin cercherà poi sempre di mettere il suo volto sulle maschere che deve indossare, e affermare la sua personalità su quella dei suoi personaggi. Forse per questo anche Sciascia non ha mai voluto camuffarsi da sceneggiatore, fosse pure dei suoi film, così che troviamo più cinema in questi scritti che nelle maschere sciasciane che il cinema ci ha dato.